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Contro la contemplazione. Il cinema, il paesaggio e l'oggetto della conoscenza

  • Immagine del redattore: stasimos
    stasimos
  • 28 mag 2018
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 29 mag 2018


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Nel suo saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Benjamin prova a comprendere il nuovo modo di percezione e partecipazione, in poche parole le modalità di fare esperienza, che il neonato cinema impone al suo spettatore. In uno dei passaggi centrali, egli pone una distinzione fondamentale fra la tela del pittore e la tela sulla quale è proiettato il film:


“Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di fronte all’immagine filmica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si è già modificata. Non può venir fissata […] il flusso associativo di colui che osserva queste immagini viene subito interrotto dal loro mutare.”


È interessante notare come l’autore dia una posizione centrale all’impossibilità costitutiva della contemplazione nel descrivere l’esperienza di fruizione del cinema.

L’immersione contemplativa è qui legata all’osservazione di una totalità immanente, un insieme finito nella cui osservazione immergersi. L’esperienza visuale che la pittura impone, spingendo il suo osservatore alla contemplazione, ci porta a tentare di possedere l’oggetto della rappresentazione, ad estrarne il significato, in poche parole a nominarlo.

Il cinema sembra impedire tale possibilità. Di fatto, affidandosi al movimento (o alla sua provocatoria assenza), esso ostacola questo tipo di conoscenza, rifiutando una rappresentazione stabile ed univoca dell’oggetto della rappresentazione, scomponendolo, trasformandolo in un essenza fantasmatica ed inesauribile, costringendoci a subire l’immagine a farla sprofondare in noi, invertendo il procedimento canonico della fruizione artistica, dettato dal mezzo pittorico. Esso ci porta a farne semplicemente esperienza, rinunciando alla possibilità di una nominazione.


Qualcosa di molto simile può esser detto sull’osservazione di un paesaggio, dall’altura di un belvedere.

L’esperienza che la vista di un ampio panorama ci impone è di tipo contemplativo? Ci permette di perderci nella sua visione? Credo che questo sia possibile solo in parte, e credo che in questo scarto sia presente il nocciolo della questione.

Penso si possa dire che, in fondo, fare esperienza di un paesaggio significhi entrare in contatto con una strana creatura, un’omogenea-eterogeneità, un insieme i cui confini sono tracciabili solo dai limiti del nostro campo visivo, e quindi costantemente percepiti come mancanti (o comunque non afferrabili), ma non dimeno sentiti come presenti. La visione di un paesaggio, non ci offre la possibilità di una totale contemplazione, al contrario, il suo continuo mutare, la sua peculiare e strutturalmente incompleta unità di elementi irriducibilmente singolari, ci impedisce di immergerci completamente al suo interno. Si tratta della particolare esperienza di sbilanciamento generato dalla visione simultanea di un’omogeneità ed una eterogeneità, di un insieme limitato ma allo stesso tempo potenzialmente interminabile, un piano di immanenza che si sovrappone inscindibilmente e senza soluzione di continuità ad un piano di azione e movimento, che potremmo definire in termini demartiniani una piccola “crisi della presenza controllata”, o con un vocabolario lacaniano una leggera “circumnavigazione del reale”.


Dovremmo, come il cineasta, pensare l’oggetto della conoscenza come un paesaggio. Tentare di utilizzare uno sguardo che ci permetta di riconoscere le sistematicità, le strutture e le serie di resistenti rapporti di forza che stringono fra di loro i diversi elementi dell’insieme osservato, ma che, allo stesso tempo, ci ricordi della natura mobile ed a aperta di tale insieme, che a causa della sua eterogeneità composizionale, ci costringe a non perder di vista l’irriducibile singolarità dei suoi componenti, ci sbilancia continuamente riaprendo ogni volta i suoi confini.


Semplicemente, ci obbliga a rinunciare alla possibilità di completare l’opera.


 
 
 

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