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CREDENZIALI D'ACCESSO

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Cosa fare del Marxismo?

  • Immagine del redattore: stasimos
    stasimos
  • 30 mag 2018
  • Tempo di lettura: 22 min



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L’allegra disinvoltura con cui taluni intellettuali della mia generazione, quella dei quarantenni, presumono di liquidare il pensiero di Marx, come se questi fosse l’ultimo degli imbecilli, non trova l’eguale che nella tetra supponenza con cui taluni intellettuali, spesso gli stessi, hanno creduto una quindicina di anni fa di potervi trovare la soluzione di ogni problema. Nell’uno e nell’altro caso quello di Marx fungeva e funge da “non-pensiero”: un composto saturo che non trova spazio nel metabolismo mentale, da ingurgitare ed evacuare senza mai trarne alimento. Di alimento per pensare, tuttavia, abbiamo bisogno oggi come ieri e più di ieri. Marx può fornircene ancora, credo, a condizione però di trovarne le valenze libere: di ripartire dalle sue domande anziché dalle sue risposte, dalle singole categorie analitiche anziché dalla serie di contenuti che un’ottocentesca filosofia della storia ricuce in sistema.


Non si tratta dunque, affatto, di rispondere a chi spiega “perché non possiamo più dirci marxisti” che, in fondo, “non possiamo non dirci marxisti” e figli del marxismo (nello stesso senso storico-culturale in cui tutti, in Occidente, “non possiamo non dirci cristiani” e figli del cristianesimo). Perché il problema, a cospetto delle sfide implicite nella società post-industriale (che sono anche sfide alla teoria e alla pratica del socialismo), non è affatto che cosa dirci, bensì che cosa fare; e in particolare, per quanto ci riguarda come studiosi di cose politiche e intellettuali della sinistra, che fare del marxismo. Problema obbligato, perché ognuno riparte da dove si trova e noi (non come singoli, ma come sinistra) siamo qui, nel bel mezzo di questa crisi storica, e non possiamo fingere che non ci riguardi, l’alternativa essendo (come sinistra, appunto) non ripartire affatto, ma disperderci nei mille rivoli del post-modernismo. Una nuova identità, infatti, non si può prendere a prestito bell’e fatta, indossando i panni di Popper, di Dahrendorf o di chicchessia, ma si deve costruire con fatica, valendosi certo di tutti gli apporti, ma perché non anche di quanto rimane dell’identità precedente? Pare che alcuni artisti bizantini non si peritassero d’infrangere antichi vasi della classicità, da loro disdegnati; ma non li buttavano via: ne usavano, invece, i pezzi più belli per costruire i loro mosaici. Marx non può più esigere da noi alcuna reverenza, ma la sua “classicità” almeno questo merita dai nuovi artigiani del pensiero politico di cui c’é oggi tanto bisogno: una irriverenza costruttiva.

Facile a dirsi. Tuttavia, per non eludere del tutto le aspettative del lettore, né quelle di coloro che mi hanno gentilmente invitato ad esprimermi in questo “dibattito a distanza”; e poiché proprio su questo che mi pare essere l’interrogativo di fondo per una nuova cultura della sinistra – che fare del marxismo? – mi sono soffermato per un anno con gli studenti di scienze politiche nel corso da me tenuto al “Cesare Alfieri” di Firenze, cercherò di riportare qui al giudizio del lettore, in estrema sintesi, alcune osservazioni generali, alcune domande “irriverenti” ed alcune ipotesi di lavoro, tutte nate per l’appunto da quell’esperienza universitaria.



Vecchi concetti, nuovi modelli


Le osservazioni generali sono due. La prima concerne le ragioni stesse di questo interrogativo: che fare del marxismo? Si potrebbe ritenerlo, infatti, un modo vernacolare di fare politica, provincialisticamente interno ad una problematica tutta italiana, laddove abbiamo bisogno di fare cultura con un respiro europeo e perfino più largo. Non è così. Un bel saggio recente di Giorgio Ruffolo reinterpreta le poche grandi “rivoluzioni” che scandiscono la storia del genere umano (intese come trapassi da un equilibrio all’altro, nel senso non strettamente politico ma sistemico-generale) come “fluttuazioni” macro-sistemiche: principalmente generate dalla discrepanza fra “potenza” e “potere”, cioè fra la capacita del sistema sociale di canalizzare energie libere verso il “controllo dell’ambiente” e la sua modificazione (la potenza) e il “controllo del controllo” (il potere). Mi pare evidente la rassomiglianza fra questa tensione potenza/potere e la dialettica che Marx ravvisa fra lo slancio delle “forze produttive” e le mutevoli capacità egemoniche della “classe dirigente”, insediata nei rapporti sociali di produzione e di scambio. L’indicazione più importante che ne ricavo, tuttavia, non è quella di trascrivere vecchi concetti in termini rammodernati (dialettica hegeliana e Teoria Generale dei Sistemi restano alquanto incompatibili), bensì quella di riformularli radicalmente: sulla misura di modelli aggiornati e allargati.




La classe è ancora un destino


Riformularli, perché? Non sarebbe meglio disfarsene completamente?

La seconda osservazione è che questa strada non è seriamente percorribile. Infatti, se possiamo tranquillamente disfarci di alcune formule pratico-politiche, per non dire ideologiche, del marxismo (a cominciare dalla “dittatura del proletariato”), della maggior parte delle categorie analitiche di Marx non possiamo negare che abbiano una ricchezza di senso che trascende il contesto storico ove nacquero. “Classe”, per esempio: non è più chiaro che cosa voglia mai dire, e da più parti si giura (probabilmente a ragione) sul declino irreversibile della classe operaia; ma che qualcosa voglia comunque dire dovrebbe essere chiaro a chiunque non voglia chiudere gli occhi di fronte all’evidenza. Specialmente dopo l’indagine sociologica di recente pubblicata su Polis, che, comparando le diverse mobilità relative fra gruppi sociali, dimostra come la divisione in classi abbia tuttora, non solo in Italia, una consistenza forte e, dunque, come la nascita segni ancora una “destino”. Il che non ci autorizza di certo a filosofeggiare nuovamente sulla missione universale della classe ascendente (quale poi?) come supersoggetto storico, ma ridà corda tanto alla nostra curiosità scientifica che alla nostra sensibilità etica.




Una singolare incongruenza di Marx


Col che vengo alle domande “irriverenti”, prima delle quali è la seguente: perché stupirsi dello storico declino della classe operaia, decrescente minoranza in tutti i paesi post-industriali?

Marx – è vero – assegna a questa classe lo storico compito di fondare un nuovo modo di produzione; ma c’è. in questa mossa marxiana, una singolare incongruenza che pochi hanno rilevato. Infatti: quando mai nella storia il passaggio al modo di produzione successivo è stato

mediato dalla classe che occupava la posizione subalterna nell’antagonismo principale del modo di produzione precedente? Non gli schiavi hanno fondato il feudalesimo, né i servi della gleba il capitalismo. La classe emergente, prima “rivoluzionaria” e poi “dirigente”, è sempre stata un tertium gaudens, silenziosamente cresciuto negli interspazi del precedente sistema. La vera e più interessante domanda, allora, è: che cosa sta crescendo, o magari è già cresciuto, negli interspazi del sistema borghese-capitalistico?

La confusa varietà di neologismi con cui si sente il bisogno di ridefinire il sistema vigente nelle società post-industriali mi fa sospettare che non si tratti più solo di neo-capitalismo, bensì di un modo di produzione affatto inedito. Al di qua di più raffinate modellistiche, semplici descrizioni come quella dell’italiano Deaglio e dell’americano Naisbitt confermano quest’impressione di radicale novità.6 Ma se questo è vero, qual è allora la nuova classe dirigente-dominante? Qualche anno fa Giorgio Galli parlava di una classe “burocratico-parassitaria” e di una classe “finanziario-speculativa”, almeno per quanto riguarda l’Italia. Siamo sicuri che riguardi solo noi?




Sistema sociale: dalla piramide al diamante


Seconda domanda. Ci sono (lo spiega un volume di Bobbio e Bovero) due principali modelli di “cittadinanza” nella filosofia politica: quello “contrattualistico” e quello hegelo-marxiano di “Stato/società civile”. Ma chi voglia, oggi, opporsi ai limiti formalistici del primo può ancora appoggiarsi plausibilmente al secondo? Probabilmente no, perché il sistema socio-politico ha di nuovo mutato forma e struttura: non è più la piramide semplice del medioevo, ma non è più neanche la piramide bicuspide dell’evo moderno, strutturata dal comando economico (società civile) e dal comando politico (Stato). Una pluralità di piramidi convergono oggi in un sistema complesso in forma di diamante (l’immagine è di Luhmann): un sistema internamente strutturato da quello che mi piace chiamare un “gomitolo di canali”. Ed è entro tale “diamante” la vecchia logica alto-basso (nei cui termini siamo da sempre avvezzi a pensare la politica) si riconfigura come centro-periferia, mettendo in forma inedite dominanze e nuove conflittualità, privilegi invisibili e irriconoscibili esclusioni.




Socialismo democratico: ripensare la cittadinanza


Se questo è vero, ogni tentativo di allargare e rendere effettivamente democratica la “cittadinanza” presuppone una seria disaggregazione del fastello di funzioni economiche che compongono l’essere “cittadino” oggi (produttore, riproduttore, consumatore, utente, contribuente, risparmiatore, etc.), così che per ognuna di queste funzioni si possano sperimentare forme specifiche di tutela e di coinvolgimento responsabile: forme di democrazia inevitabilmente “rappresentativa”, ma non per questo “astratte”: anzi, pienamente rispettose delle regole sotto-sistemiche e della specificità dei linguaggi di settore. Questa concezione, l’unica pensabile forse, del “socialismo”, se questa parola ha da conservare un senso, si oppone tanto allo statalismo del socialismo reale quanto alle infauste parole d’ordine, tipicamente italiane, del socialismo irreale. Infatti, sia lo statalismo che l’ideologia del “territorio” sovrimpongono alla varietà dei giochi sociali un unico linguaggio, quello “politico” nel senso più ristretto. Ma questo, ai fini della democrazia, non è meno astratto di quello “giuridico” (di cui il giovane Marx denunciava i limiti liberalborghesi a cospetto della proprietà). In realtà, la riproposizione delle forme classiche della democrazia politica in ambiti diversi da quello stricto sensu politico (si pensi ai consigli scolastici) non morde. Né può farlo perché suppone un linguaggio e delle pratiche del tutto alieni dalla mobilitazione sociale delle forze produttive e del tutto funzionali, invece, alla mortificazione dei codici periferici, nonché alla monopolizzazione dei canali centrali su cui viaggiano la produzione, la decisione e l’innovazione: funzionali, insomma, all’occupazione delle istituzioni da parte di uno o più partiti ed alla “colonizzazione” del paese da parte di una nuova “classe metropolitana”. compradora e parassitaria, nella quale convergono i vertici delle varie piramidi che compongono il “diamante” luhmanniano.

Insomma: se vogliamo far crescere la democrazia in ambiti diversi da quelli dove è nata, se vogliamo far valere le ragioni del cittadino-consumatore, del cittadino-risparmiatore etc., dobbiamo inventare istituzioni ad hoc, che non siano stupidi parlamentini senza potere né caricature di soviet per i nostalgici della rivoluzione né camere di compensazione per i nostalgici delle corporazioni, bensì forme inedite di democrazia rappresentativa pensate su misura per ogni singolo ambito: tutte da inventare.






Valore: il materialismo storico non è abbastanza materialistico!


Alcune ipotesi di ricerca, per concludere – stenograficamente e un po’ alla rinfusa. Primo: occorre ripensare la natura del “valore” in termini sistemico-generali. Ha “valore” per un sistema ogni differenza positiva di energia, informazione, codici, che gli venga messa a disposizione, tramite gli opportuni canali, per un più efficace controllo dell’ambiente a parità di lavoro (nel senso che quest’ultimo termine assume in fisica). Adottando una definizione siffatta, che non è meno ma più materialistica di quella di Marx, vedremmo che al valore di un bene non corrisponde il tempo di “lavoro comandato” (Smith) né quello di “lavoro contenuto” (Marx), bensì il tempo di “lavoro liberato”, ovvero (per ridirla nei termini filosofici di un carteggio recente fra M. Cacciari e C. Napoleoni)12 che il télos del lavoro sta nel non-lavoro. La teoria marxiana del valore-lavoro, in questa prospettiva, non è falsa ma parziale. Essa appartiene a un’epoca in cui il valore della merce dipendeva più che altro dal suo contenuto energetico, nonché a un’epoca in cui l’aggiunzione di energia pareva essenzialmente dipendere, ancora, dal corrispondente impiego di lavoro umano.






Scienza ed etica come forze produttive


Secondo: l’idea che alla creazione di ricchezza non concorra solo l’energia-lavoro, ma anche quelle singolarissime forme di “risparmio energetico” rese possibili dall’informazione e dai codici, ed anche la presa d’atto che col passare degli anni, nel sistema industriale avanzato, al complesso scientifico-culturale competa, sotto questo profilo, un’importanza rapidamente crescente - questa idea e questa presa d’atto sono già adombrate nel pensiero di Marx13 dove si parla della general knowledge e dell’intelletto generale-sociale come “forze immediatamente produttive”. Nani sulle spalle di giganti, siamo oggi in grado di capire meglio che non solo la scienza e la tecnica strettamente e contenutisticamente intese costituiscono “forze produttive”, bensì anche una serie di patterns antropologici (la “cultura”, nel senso più largo) dai quali lo stesso lavoro è necessariamente messo-in-forma: ivi comprese l’etica, che costituisce una “risorsa” per decidere in situazioni d’incertezza, e la forma-soggetto, cioè la forma storica della soggettività. Col che, (a) sfuma l’opposizione fra la sociologia di Marx (la religione come ideologia) e quella di Weber (l’etica protestante come forza immediatamente produttiva); e (b) siamo obbligati a riconoscere che la relazione base-sovrastruttura, per riprendere la poco felice metafora edilizia di Marx, non è verticale né unidirezionale, bensì circolare, perché proprio i livelli più astratti (la scienza) e più formali (l’etica) della c.d. “sovrastruttura” si ricongiungono, in quanto forze produttive, con la concretezza economica della c.d. “base”.






Modo di produzione: dell’oggetto, però anche del soggetto


Terzo: se questo è vero, occorre non abbandonare, ma ripensare il concetto di “modo di produzione” o forma egemone dei rapporti sociali di produzione e di scambio. Occorre, in particolare, ammettere che in ogni formazione economico-sociale non c’è solo un tipico modo di produrre l’oggetto (per es. la merce), ma anche un tipico modo di produrre il soggetto; e, dunque, che ad ogni “modo di produzione” (nel senso di Marx) corrisponde una tipica “struttura di base della personalità” (concetto primariamente riferito dagli antropologi alle società selvagge, ma egualmente riferibile – perché no? - alle società civili). Anche di questo c’è in Marx un qualche sentore (quando pare cautamente includere nei rapporti sociali di produzione la “riproduzione sociale della vita”), ma del tutto insufficiente: sia per mancanza di sensibilità (il vasto mondo dell’intersoggettività non trova molto spazio nell’opera marxiana) sia per mancanza di strumenti di analisi scientificamente adeguati. Oggi, però, ha senso supporre che le agenzie di socializzazione primaria e secondaria (madre, famiglia, scuola, gruppo dei pari, comunicazioni di massa, etc.) abbiano eguale importanza nel modo di produzione, per ciò che riguarda il “soggetto”, di quanta da sempre se ne riconosce alla fabbrica, per ciò che riguarda l’“oggetto”.







L’“uomo nuovo” non è passibile di progettazione politica


Quarto: finché i rapporti sociali di tipo intersoggettivo (a loro volta influenzati da grosse trasformazioni di base che investono la vita quotidiana) producono una “personalità modale” o forma-soggetto prevalente che sia congrua con i rapporti sociali di tipo oggettivo, questi rimangono funzionali allo sviluppo delle forze produttive; la circolarità sistemica è assicurata e la formazione economico-sociale “fila”. Quando, invece, emerge un nuovo tipo di personalità, le istituzioni sociali (ivi comprese quelle politiche che producono e riproducono quel singolarissimo oggetto che è la “polis”) entrano in crisi, s’intraprendono inedite sperimentazioni, si accendono nuove conflittualità (non necessariamente “rivoluzionarie” nel senso insurrezionale di questo termine). È questo, probabilmente, che è successo, con la trasformazione delle società industriali in post -industriali, negli ultimi decenni (basta pensare alle ricerche psico-sociologiche e psico-politiche di C. Lasch e sopra tutto di R. #Sennett sul “narcisismo del nostro tempo”.

Questa riformulazione della “dialettica” marxiana fra base e sovrastruttura, nonché (all’interno della base) fra forze produttive e rapporti di produzione, non è, tuttavia, una mera parafrasi della fraseologia hegelianeggiante di Marx, né si contenta di trascrivere vecchie analisi in una gergalità nuova. Partendo, come parte, dalla estensione di tutti i concetti che la compongono, nonché dalla introduzione di un concetto relativamente nuovo (la forma-soggetto come “anello mancante” della circolarità sistemica), tale riformulazione integra un modello nuovo, sperabilmente generativo di nuove analisi, come pure di nuove prospettive.

Con tale modello, per contro, deperisce e muore ogni filosofia politica della “liberazione” intesa come liberazione integrale: dell’esterno e dell’interno, politica e antropologica nel contempo. Non solo perché non si scorge più alcun soggetto storico-messianico in grado di farsene carico per tutti gli uomini, ma perché l’“uomo nuovo” su misura per la nuova società non è suscettibile di progettazione politica.

Non che la psicologia umana sia assolutamente immutabile nei secoli o che grosse trasformazioni non agiscano in profondità su di essa, destrutturando e ristrutturando la “personalità di base”: al contrario! Ma questa muta da sé e, per di più, in maniera scarsamente prevedibile. Benché non sia una variabile teoricamente indipendente, la psicologia è una variabile praticamente indipendente. Non ha senso comune, dunque, mettere in corto circuito fra loro “utopia morale e utopia politica”, progettando istituzioni per l’uomo come dovrebbe essere. Ed è vero che da tali forme d’integralismo teorico c’è solo d’aspettarsi una qualche tentazione di totalitarismo pratico.





Il socialismo non dev’essere concepito come modo di produzione, bensì come idea regolativa


Su queste posizioni di completo disincanto converge tranquillamente – da anni ormai – tutta la sinistra post-marxista europea, né vedo in ciò alcuna significativa differenza fra socialdemocrazie del nord, socialismo mediterraneo ed eurocomunismo. Ma questa felice acquisizione di laicità politica non comporta di necessità, come di fatto accade, alcuna adesione a forme di pragmatismo spicciolo. Contro un certo post-modernismo diffidente di progettualità e prossimo alla rassegnazione, se non anche al cinismo, va pur detto che rimane ancora possibile progettare , dove occorre e quando occorre, nuove istituzioni e nuove regole di convivenza: non per l’uomo come vorremmo che fosse, ma per l’uomo come di fatto diviene, tenuto conto delle tendenze osservabilmente affioranti.

Però, attenzione, quinto punto: si tratta di una progettazione sempre parziale e provvisoria.. Venuta meno ogni illusione sul “socialismo” come liberazione integrale dell’essere umano, bisogna egualmente smettere di concepire il socialismo così come lo vuole la tradizione marxista: espressione politica di uno specifico modo di produzione, del quale affrettare l’avvento. E ciò per la semplice ragione che non risulta ad uno sguardo “laico”, nella sequenza storica dei modi di produzione, alcuna determinazione logica dei passaggi né alcuna predeterminazione teleologica degli esiti. D’altronde, per quanto riguarda i modi di produzione dell’avvenire, se pare poco probabile poterli prevedere, pare ancor meno probabile poterli programmare.






Quel che deve deperire ed estinguersi non è lo Stato, ma la connotazione di classe della cittadinanza


Tuttavia, fra la presunzione di programmare la Storia e il pragmatismo spicciolo dei rassegnati (non voglio dire che tutti lo siano), c’è tutto uno spazio d’iniziativa che si apre: per ispirazioni dal fiato lungo e per progettualità di medio periodo. Personalmente ritengo che rimanga aderente al senso comune, ma anche teoricamente ben fondata, una certa immagine del “socialismo” come idea regolativa della ragione politica: un’idea in funzione della quale concepire non tanto misure amministrative rivolte all’abolizione delle strutture su cui storicamente si appoggia la divisione di classe, quanto assetti istituzionali e di “potere”, anche settoriali e parziali, che siano meglio commisurati alla “potenza” crescente del sistema, alla sua complessità, ma nel contempo anche sorretti dall’estensione di forme specifiche di democrazia a tutte le funzioni economiche della “cittadinanza”; e ciò nella prospettiva di uno svuotamento dall’interno di ogni privilegio che non abbia una chiara giustificazione nel pubblico interesse. Ciò significherebbe marciare verso un deperimento della connotazione di classe della cittadinanza medesima, nonché verso una graduale, lenta dissoluzione di ogni “classe” (nel senso forte di Marx) in una trasversale pluralità di categorie e in una mobile pluralità di appartenenze.

Per non essere frainteso: ciò vuol dire una situazione dove ovviamente sussistono fra gli individui differenze di condizione sociale rilevabili su più dimensioni (economica, culturale e di potere, per rifarsi a Max #Weber ), però anche una situazione dove quelle differenze non debbano necessariamente coincidere nelle classi storiche della stratificazione sociale (quelle che Marx analizza), né siano predestinate a riprodursi nel tempo, bensì possano assumere valori diversi in relazione alle singole categorie come pure in relazione ai singoli individui.





Fine dell’ideologismo sì, fine della teoria no!


Una idea siffatta di “socialismo” appare non solo plausibile nel mondo post-industriale, ma perfino più attuale oggi di ieri, giacché solo oggi se ne intravvedono le condizioni. Certo, su ciò si giocherà nel prossimo secolo una grossa battaglia: con gli interessi consolidati e con quelli in formazione. Parte oggi una gara a chi arriva prima, ed anche a chi dimostra maggiore immaginazione politica. Si tratta, infatti, di proporre singole soluzioni parziali e settoriali, ma di un qualche respiro, soluzioni che devono essere commisurate allo slancio delle forze produttive ed alle nuove forme di soggettività. D’altronde, le “soluzioni” non sono necessariamente intese alla promozione della democrazia, verso nuove garanzie e nuove emancipazioni; può ben accadere che ne passino di egualmente “soddisfacenti”, che costituiscono per la causa democratica piuttosto una mortificazione.

Per questa ragione occorre mettersi a studiare ed occorre anche cercare di pensare un po’ più in grande. La nostra epoca non è finalmente liberata da un eccesso di riflessione politica, bensì tristemente afflitta da un difetto di essa. Almeno per quanto riguarda quel genere di riflessione che cerca di coniugare un progetto politico di qualche respiro con la comprensione scientificamente approfondita del presente come “storia in atto”.



Emerge un nuovo modo di produzione


Ed eccomi, dunque, con la sesta ed ultima ipotesi, alle nuove analisi che un nuovo modello teorico post-marxista sarebbe forse in grado di generare. Personalmente, credo che già si vada, nelle società post-industriali, verso un modo di produzione post-capitalistico. Lo definirei, provvisoriamente: “modo di produzione fiscale”.

La più evidente caratteristica di esso mi pare il passaggio dalla prevalente produzione di valori di scambio, tipica delle economie mercantili e capitalistiche, alla prevalente produzione di valori d’uso. Da parte dello Stato sociale, certo, ma non solo di esso: anche da parte di quello che Marx chiama l’“intelletto generale”. Un’altra caratteristica importante mi pare la crescente integrazione del capitale produttivo col capitale sociale, a sua volta costituito da valori d’uso legati alla dislocazione delle infrastrutture, alla qualità dell’ambiente, etc.

Benché l’importanza del #mercato in quanta commisurazione negoziale dei valori di scambio

certamente cresca, in termini assoluti e per così dire “volumetrici”, e perfino subisca – al presente – significative accelerazioni che suscitano compiaciuto stupore (onde le rapide conversioni ideologiche di coloro che innalzano peana al neo-capitalismo), è assai probabile che l’incidenza relativa dei valori tradizionalmente commerciabili invece decresca con altrettanta rapidità, a vantaggio di valori “invisibili”, i cui costi di produzione ed il cui allestimento sono a carico di enti sia pubblici che privati: valori apparentemente gratuiti, i cui benefici vengono goduti sia dalle famiglie, in quanto unità di consumo, che dalle aziende, in quanto unità di produzione, nella forma di una diminuzione dei costi virtuali. A questi valori d’uso, “invisibili” e francamente gratuiti, almeno in apparenza, vanno aggiunte quelle differenze di valore la cui acquisizione è permessa (specialmente nel nostro Paese) dall’erogazione di servizi sotto-costo. Ed è inoltre evidente che la crescente importanza dell’uso rispetto allo scambio è molto favorita dalla crescente diffusione, con le telecomunicazioni di massa, di quei beni alquanto singolari che sono costituiti dai “messaggi” (formativi, informativi, ricreativi o che altro), i quali, per loro stessa natura, sono scarsamente suscettibili di commercializzazione nelle forme tradizionali.

Bisogna dire che c’è, in tutto ciò, una dimensione potenzialmente sociale dell’economia, abbastanza inedita, che suscita il massimo interesse. Dimensione sociale che tradizionalmente si realizzava nel Welfare State, che è poi uno “Stato fiscale” (le cui contraddizioni e le cui interne ragioni di crisi sono state analizzate, fra i primi, proprio da un economista marxista, O’Connor),19 ma ormai non più sololà. Si aprono infatti nuove prospettive: la possibilità di mettere in parte al servizio della comunità quote significative di #economia privata (si pensi, per es., alla tendenza emergente nelle principali municipalità metropolitane degli Stati Uniti d’America di subordinare la concessione di licenze edilizie al contestuale allestimento di spazi pubblici e pubblici servizi).

C’è però, in questo, anche un aspetto anti-sociale, che integra una nuova “contraddizione”. Infatti, sia la produzione che l’allocazione dei valori d’uso non possono, per la natura stessa di questi beni e di questi servizi, essere decise del mercato, con le relative garanzie di trasparenza ed equità che ineriscono al libero scambio in un sistema liberaldemocratico. La decisione, dunque, si sposta altrove: dal quadro legale dello scambio economico al quadro amministrativo dello scambio politico, inteso come scambio di favori negoziabili da posizioni di potere.

Tengo subito a precisare che, parlando di “scambio di favori”, non mi riferisco principalmente agli episodi di corruzione o concussione che spesso affliggono la vita pubblica. Questi non sono, in un certo senso, altro che l’inevitabile ciliegina sulla torta. Infatti, come non si potevano imputare le sofferenze del lavoratore sfruttato nel primo capitalismo alla cattiveria del singolo capitalista (Marx), così sbaglieremmo nell’imputare le sofferenze del cittadino sfruttato nel sistema odierno alla corruzione del singolo funzionario. Ciò che, di nuovo, dovremmo cercare di comprendere, sono le strutture del sistema, che sono oggi notevolmente diverse.




Dal controllo esclusivo dei “mezzi di produzione” al controllo collusivo dei “canali”


Il modo di produzione capitalistico o «produzione di merci a mezzo merci» ( #Sraffa ), fondato sulla produzione prevalente di valori di scambio, consisteva nello «scambio fra capitale e lavoro salariato» e nella legale estorsione di un “plusvalore”, socialmente prodotto e privatamente appropriato (Marx). Detto in altri termini, la funzione sociale e la posizione di vantaggio del capitalista consistevano nell’occupare la posizione cruciale di chi controlla l’interfaccia fra due canali o famiglie di canali, rispettivamente costituiti dal capitale e dalla forza-lavoro, altrimenti insuscettibili (al di fuori di una combinazione fra loro) di modulare alcuna trasformazione produttiva. Non diversamente, d’altronde, da quanto era accaduto in altri modi di produzione, sorretti da combinazioni di “canali” affatto diverse. A cominciare dal discusso “modo di produzione asiano” (fondato sul controllo dell’irrigazione e base reale del dispotismo orientale), che riguardato sotto questa luce non costituisce più un’inspiegabile “eccezione”.

Per contro, il modo di produzione emergente, fondato com’è sulla produzione prevalente (almeno in tendenza) di valori d’uso, mi pare costituito da una triangolazione, dove i vertici dello scambio rispettivamente consistono: (a) nel capitale sociale, costituito dalle risorse ambientali, sia naturali che artificiali, nonché dalle risorse fiscali ed erariali in genere; (b) nel capitale finanziario, sia pubblico che privato, costituito dai mezzi di produzione più tradizionalmente riconoscibili come tali (nell’industria, nel credito, etc.); e (c) nella cittadinanza, di nuovo intesa non solo come l’insieme dei cittadini per così dire “astratti” e puntiformi, ma come l’esercizio complessivo del fascio di funzioni economiche che fanno capo ad ogni singolo cittadino (produttore, riproduttore, consumatore, utente, contribuente, risparmiatore, etc.) e che lo mettono in relazione di scambio tanto col capitale sociale come con quello finanziario.

Passando dai vertici ai lati del triangolo, troviamo una classe “burocratico-parassitaria” che media gli scambi fra cittadinanza e capitale sociale, controllando canali e/o codici della comunicazione, ed una classe “finanziario-speculativa” che media gli scambi fra cittadinanza e capitale finanziario, occupando a sua volta posizioni cruciali con la complicità della prima. Ma là dove si realizza l’unificazione collusiva fra le due classi (che verrebbe voglia di chiamare “dominante” e “dirigente”) è sul terzo lato del triangolo, nel controllo comune, ma di continuo rinegoziato, dell’interfaccia produttiva fra capitale sociale e capitale finanziario. È proprio qui, infatti, che vengono prodotti i valori d’uso di cui si parla e con cui si “legittima” lo scambio di favori e l’intrico profondo fra potere e profitto, potere e rendita.

Le nuove forme dello sfruttamento

Non è che i valori d’uso così prodotti nella forma di fruizioni possibili vengano sempre messi a disposizione esclusiva di una ristretta Nomenklatura. Questa non è che la perversione “brezneviana” di quello che provvisoriamente chiamo “modo di produzione fiscale”: perversione che rimane comunque episodica e non riguarda le strutture di fondo. La più parte delle occasioni di fruizione così create – siano esse autostrade o asili-nido o che altro – vanno realmente ad arricchire il capitale sociale, che parrebbe così, parafrasando Marx, esso pure un “valore (d’uso) arricchito da un plusvalore (d’uso)”. Senonché, i larghi margini di discrezionalità e perfino di arbitrio con cui vengono decise e predeterminate la produzione e l’allocazione di tali beni rinforza il potere clientelare della classe politica e introduce nuove diseguaglianze, nel momento stesso in cui vengono ridimensionate certe disparità economiche. Per godere di quei beni, infatti, i singoli membri della cittadinanza non devono principalmente corrispondere a certi requisiti formali, più o meno democraticamente decisi per legge, bensì semplicemente potersi trovare nel luogo giusto al momento giusto (la nuova forma della “rendita di posizione”), nonché possedere certi codici di accesso e certe “chiavi” senza cui il valore d’uso rimane una virtualità inutilizzabile o largamente inutilizzata (come sarebbe un’autostrada percorsa da dieci macchine l’ora o un asilo-nido costruito in un quartiere ricco di conti correnti e povero di bambini).

Inoltre, un’altra parte dei valori d’uso che arricchiscono il capitale sociale ritornano al capitale finanziario, direttamente (per quanto concerne l’uso d’infrastrutture) o indirettamente, nello scambio ch’esso intrattiene con la cittadinanza (come accade, per es., col crescere dei livelli d’istruzione). Nel che non ci sarebbe assolutamente niente di male – anzi! – se molte di queste esternalità positive del capitale finanziario non implicassero più costose esternalità negative a spese del capitale sociale e, di riflesso, della cittadinanza, com’è divenuto clamorosamente evidente nel campo ecologico. (Non a caso, credo, questa delle economie e diseconomie esterne è divenuto, negli ultimi anni, una problematica sempre più frequente tanto nella riflessione degli economisti che in quella dei fautori di un’etica pubblica per l’economia).

C’è, dunque, un plusvalore-di-uso che va ad arricchire il capitale sociale a beneficio della cittadinanza, ma c’è anche un minusvalore-di-uso che impoverisce il capitale sociale, a vantaggio esclusivo di quelle frazioni della cittadinanza che sono costituite dalla classe finanziario-speculativa e dalla classe burocratico-parassitaria e dai loro clientes. Ed è questa, a mio avviso, la nuova forma storica dello “sfruttamento” generalizzato all’interno delle società post-industriali (prescindo qui dal problema Nord-Sud, che resta in Italia politicamente ed eticamente imprescindibile).






La caduta tendenziale del saggio di socialità


In tali condizioni il capitale sociale può anche crescere nel suo complesso, fintantoché il plusvalore-di-uso rimane più elevato del minusvalore. Ed è probabile, anzi, che cresca, perché proprio nell’esistenza di un saldo positivo consiste principalmente la legittimazione politica di massa del sistema sociale (ed è, questa della crescita comunque, una “ideologia” che non conviene, alle classi dirigente e dominante, revocare in dubbio con politiche di esasperata rapina). Però esso, il capitale sociale nelle sue valenze d’uso, cresce comunque meno, e meno rapidamente, di quanto le forze produttive, al netto della remunerazione di mercato dei capitali impiegati, renderebbero possibile. Può accadere, inoltre, che prevalga la tentazione di sfidare l’opinione pubblica: tentazione tanto più forte quanta più l’opinione pubblica si fa debole; con la conseguenza di assottigliare progressivamente il saldo positivo del capitale sociale fin quasi al pareggio: una sorta di “caduta tendenziale del saggio di socialità” (ma neppure di questa parafrasi suggestiva voglio fare una vera legge dello sviluppo sistemico, la storia di ogni sistema sociale essendo affidata a mille contingenze ed essenzialmente impredicibile).

Dovremmo distinguere, a questa punto, fra un minusvalore-di-uso, per così dire, “assoluto” ed uno “relativo” (in analogia col plusvalore marxiano). Questa distinzione è importante, perché ci dice che la deplezione del capitale sociale – cosa ben diversa dal semplice uso privatistico dei beni a fecondità ripetuta che esso contiene – si realizza tanto con un fare (azioni) che con un non-fare (omissioni), variamente intrecciati fra loro. In maniera specularmente inversa al plus-valore, definiremo “assoluto” il minusvalore che può venir realizzato, a spese del capitale sociale, con l’allestimento altamente produttivo (in termini tradizionali) di beni scarsamente produttivi (in termini di uso); come sarebbe, per esempio, l’approntamento rapido ed efficiente di servizi scarsamente utili (azione) rispetto a quelli che si sarebbero potuti apprestare con lo stesso impiego di risorse sociali (omissione). E definiremo, invece, “relativo” quel minusvalore che può venir realizzato con l’allestimento scarsamente produttivo (in termini tradizionali) di beni altamente produttivi (in termini di uso). Nel quale senso, la paralizzante lungaggine mascherata di garantismo, che spesso affligge l’esecuzione di opere di pubblico interesse, causata dall’inestricabile intermissione del processo decisionale e del processo produttivo, si rivela del tutto funzionale alla collusione fra esigenze clientelari del potere politico ed esigenze economiche del capitale finanziario, assicurando a quest’ultimo un trasferimento di risorse fiscali, per es. nella forma d’interessi bancari o nella forma di mille altri costi aggiuntivi.

Siamo dunque di fronte, col modo “fiscale” di produrre valori di uso, ad un modo di produzione che trova, fra l’altro, una specifica novità nella strutturale congiunzione del fare e del non-fare, del decidere e del non-decidere (ciò che vale in maniera tutta particolare per il nostro Paese). Del resto, il modo di produzione dell’oggetto – giova ricordare – va di pari passo con l’affermazione di un nuovo modo di produzione del soggetto: presumibilmente, un tipo di personalità narcisistico-onnipotente alla quale risulta molto difficile separarsi dalle infinite possibilità che teoricamente si aprono, per realizzarne in pratica solo una. Chi, come scrive, vive a Firenze ed assiste da decenni all’interminabile quanto poco concludente dibattito sulle mille iniziative da realizzare per la città, ne ha giornalmente la più chiara delle conferme. Ma gli stessi conati decisionistici della politica e della cultura italiane – peraltro pericolosi nella loro astrattezza – sembrano, per un verso, reagire ad un siffatto costume, e, d’altro canto, sintomaticamente esprimere il desiderio che “qualcun’altro decida per me”.






Dall’internazionalismo proletario all’internazionalismo democratico


Non voglio nascondere un qualche dubbio, che assale per primo chi scrive, sull’opportunità di evocare un nuovo modo di produzione. Non già perché nulla osti in via di principio, ma perché obiezioni potrebbero essere mosse alla coerenza teorica ed alla consistenza empirica di tale operazione. Il c.d. modo di #produzione fiscale, infatti, pare piuttosto inglobare, che non soppiantare, quello capitalistico; ed alcune sue caratteristiche che ho qui cercato di lumeggiare, possono parere fortemente influenzate da una speciale attenzione alla situazione italiana (ma di questa seconda obiezione sono meno convinto). La sua descrizione, d’altronde, relativamente indifferente qual è al valore che possono assumere certe variabili a livello politico (occupazione delle istituzioni da parte di più partiti o di un partito solo) come pure a livello economico (carattere privato o pubblico o misto del capitale finanziario) mi sembra sufficientemente attagliarsi, nelle linee generali, tanto all’evoluzione subita dal capitalismo industriale quanto all’evoluzione subita dal socialismo industriale: due regimi socio-economici che troverebbero qui per davvero la loro convergenza, preannunziata con varietà di prospettive da tanti studiosi, da Burnham a #Schumpeter.

Ammetto senz’altro che non si tratta, con questo nuovo concetto, altro che di una ipotesi di lavoro. Una ipotesi, tuttavia, carica di conseguenze impegnative, se dovesse rivelarsi ben fondata. Penso in particolare ad un internazionalismo democratico delle “cittadinanze”: per meglio fronteggiare l’internazionalità della deplezione subita da quel capitale sociale che, per tanti aspetti, non può rinchiudersi negli orizzonti nazionali, ma riguarda la specie umana. Ed è questa una prospettiva che farebbe ritrovare un senso forte, non più meramente filosofico ma schiettamente politico, a parole come “cosmopolitismo”: prospettiva di lotta contro l’entropia sociale e contro tutte le politiche che, fondate, sull’occupazione dei canali sociali e la monopolizzazione dei codici di accesso, producono un sensibile decremento della quantità d’informazione virtualmente circolante (come tipicamente accade, da sempre, nelle operazioni speculative) per concentrarne di più in pochi punti.

Una prospettiva, inoltre, non priva di rischiose mediazioni tutte da farsi, perché certe insofferenze e certe pratiche affioranti a livello popolare (come la critica della burocrazia, il rifiuto della partitocrazia, l’assenteismo, il lavoro nero e l’evasione fiscale) stanno alla cittadinanza democratica come il #luddismo stava al nascente movimento operaio: ambigui segnali di malessere, che non possiamo certo giustificare, ma neppure dobbiamo ignorare con l’aristocratico sussiego della sinistra tradizionale. Depurata della sua ambiguità, come pure di ogni tentazione qualunquistica, l’insofferenza diffusa va guardata come una risorsa: l’unica che abbiamo contro un certo post-modernismo carico di rassegnazione. Per ridare un senso, con tutti quelli che hanno a cuore le sorti del capitale sociale, a parole come “cosmopolitismo” e perfino – udite! udite! – come “progresso”.


Articolo di Sergio Caruso (Università degli studi di Firenze)









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