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Il povero in camicia

  • Immagine del redattore: stasimos
    stasimos
  • 28 mag 2018
  • Tempo di lettura: 2 min

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Si è svolto, pochi giorni or sono, un convegno sul reddito di inclusione e altre misure di lotta alla povertà presso il #CampusEinaudi dell’università di #Torino. Varie le persone ad aver preso parola durante l’incontro, ma guidate, quasi tutte, da un approccio ben determinato. Un approccio che si è potuto dedurre dall’utilizzo prevalente dei seguenti termini: “autonomia”, “indipendenza”, “manager”, “utente”, “opportunità del mercato del lavoro” e infine “mondo aziendale”. Ad un tratto, ha preso parola un signore il cui mestiere non mi sovviene, ma certamente facente parte del “terzo settore”, la cui prospettiva si è palesata nel momento in cui ha fatto riferimento alle pratiche che i poveri dovrebbero attuare per poter tentare di reintegrarsi nel tessuto economico e sociale. Queste le sue parole: “perché è importante che loro ( i poveri ) sappiano come affrontare un colloquio di lavoro e soprattutto ( ridendo) che devono mettersi una camicia bianca per potersi presentare”. A far da corollario a questa frase, una serie di osservazioni riguardo alle modalità di interazione fra povero e mercato del lavoro, da cui è emersa una drammatica assenza di lettura della consequenzialità tra forma assunta dal mercato del lavoro oggi e aumento delle disuguaglianze e dunque, della povertà. Il paradosso prodotto da tale retorica, trova nell’allegoria del povero in camicia la sua espressione più drammatica: utilizzare, per proporre prospettive di lotta alla povertà, termini provenienti dallo stesso corpus linguistico di quella parte di società che, attraverso le politiche degli ultimi venticinque anni, ha determinato un decisivo aumento delle disuguaglianze. Le misure descritte durante questo convegno, presentate a tratti quasi come innovazioni di una politica che torna ad ascoltare i bisogni delle persone (persone, e non cittadini, e tantomeno utenti, come invece sono stati definite le persone durante tale convegno), prendono oggi forma semplicemente perché l’elefante nella stanza si sta facendo ingombrante e non perché si è di fronte ad un effetto inaspettato del capitalismo che bisogna saper gestire. Senza sottolineare come talvolta tali soggetti divengano strumenti per ulteriori estrazioni di plusvalore, ciò su cui qui si intende scrivere una riflessione è di come non si possa considerare il problema della povertà senza collocare quest’ultima nel contesto del mondo del lavoro e nel più ampio spazio culturale in cui essa si sviluppa; una prospettiva tristemente simile all'approccio medico curativo che interviene unicamente su un particolare sintomo ignorando il corpo nel suo insieme e la sua storia. La quasi totalità del Discorso di questo incontro, si è concentrata sulla multidimensionalità delle tecniche da adoperare per aiutare il povero senza approfondire la complessità di questa figura. Non si è dimostrata una profondità di analisi critica capace di guardare al povero come figura che nella nostra città, sotto i portici della Torino più luccicante, negli angoli dei mercati, delle stazioni e dei bagni pubblici, è lì a ricordarci che è il modo in cui l’economia è concepita ad esserne la causa. La povertà non è un effetto perverso e inaspettato dell’economia di mercato, ma il sintomo del principio di esclusività ed esclusione da cui questa è guidata, e non basterà indossare una camicia bianca per nasconderne perversioni e contraddizioni.


 
 
 

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